La conoscenza che protegge
Il termine pandemic fatigue (‘stress da pandemia’) si riferisce alla profonda sensazione di stanchezza e sfinimento, variamente percepita dalle persone nell’attuale situazione di contagio da Covid-19, nell’attivare le misure per salvaguardare la propria salute. Secondo gli esperti, tale condizione è dovuta al protrarsi, nel tempo, della grave emergenza in cui ci troviamo al momento, una situazione che ha comportato la radicale, quanto improvvisa, modificazione delle abitudini quotidiane e delle normali interazioni sociali, imponendo a tutti una diffusa abitudine insulare, ovvero, una ripetuta e prolungata inibizione dell’innata propensione umana all’interazione ecosistemica e sociale. Il risultato di questa situazione è stato quello di rendere gli individui più impauriti, deboli, vulnerabili e pericolosamente condizionabili.
Come possiamo proteggerci dagli effetti di questa particolare manifestazione del Kali Yuga? Quali insegnamenti della Tradizione sono in grado di fornirci un antidoto alla virulenza della paura, della frustrazione e della solitudine? Come possiamo sviluppare un atteggiamento vigile, compassionevole e costruttivo? Come possiamo agire nel quotidiano per cambiare quello che è in nostro potere ed essere di aiuto a noi stessi e agli altri?
Se osserviamo con maggiore attenzione la pandemic fatigue nell’ottica dello Yoga, collocandoci per un momento nella dimensione più ampia dell’ulteriorità spirituale, oltre lo spazio-tempo del fenomenico e al di là delle circostanze localizzate dell’azione finalizzata, scopriamo che questa grave forma di astenia esistenziale, della quale siamo caduti vittime, in varia misura, rimanda a qualcosa di molto più grande e complesso, rispetto alle circostanze nelle quali ci troviamo al momento. Essa è un sintomo emergente del colossale mal de vivre endemicamente presente nell’umano, connaturato alla stessa esistenza incarnata e risultante dalle distorsioni percettive del soggetto rispetto alla dimensione prakritica del fenomenico e del transeunte. In questa prospettiva, la frustrazione, lo sfinimento, il senso di pesantezza e di impotenza di fronte agli eventi che ci affliggono, anche i più catastrofici, sono i sintomi di una modalità unidirezionale di percepire la vita come dimensione, conflittuale e difficoltosa, dell’imprevisto spiacevole, del pericolo costante, delle incomprensioni relazionali, della perdita di controllo sugli affetti, sugli oggetti e sulle situazioni, ma anche della solitudine e dell’isolamento. La vita materiale, insomma, come dimensione dell’emergenza perenne, in cui il contagio è contagium psychicum, psicologico, prima ancora di essere contagium vivum, fisico, e in cui il primo influenza il secondo, ponendo ripetutamente il soggetto in uno stato reattivo, nella maggior parte dei casi depressivo, apparentemente privo di vie d’uscita, potenzialmente distruttivo e alienante in misura proporzionale alla sua temporanea dislocazione dalla realtà dell’Essere.
La progressione di questa epidemia psichica deriva da un agente patogeno ben più aggressivo di qualunque altro virus, spaventosamente contagioso e resistente alle cure. Si tratta di avidya, tra i pañca kleśā il più radicato e difficile da individuare, perché fatto di materia sottile, sfuggente alle funzioni razionali della psiche, multiforme e impalpabile ai sensi. Il termine avidya significa ‘ignoranza’ e indica la non conoscenza della propria natura essenziale, la mancanza di visione, di sapienza spirituale, dovuta all'influenza della materia, la prakriti, sull'essere vivente, il jiva. Avidya è, insomma, il clamoroso fraintendimento esistenziale per cui, come insegna Patañjali, tendiamo a non distinguere tra il puro e l’impuro, tra l’impermanente e il permanente, scambiamo il dolore e con la felicità, confondiamo ciò che è con ciò che è privo di consistenza ontologica (Yoga Sutra 2.4).
Da questo colossale malinteso, secondo la cultura indovedica, provengono l’identificazione del soggetto con la dimensione materiale e la conseguente produzione di karma, in una progressione potenzialmente senza fine di azioni che, essendo fortemente condizionate dai guna, similmente a un cibo del tutto privo di sostanze nutritive, non soddisfano il nostro innato bisogno di senso, stabilità e felicità, quindi non rispondono alle necessità dell’anima. Il risultato è quello di portare ineluttabilmente alla sofferenza, vale a dire, a quanto vi sia di più lontano dalla dimensione spirituale dell’Ātman, invece immortale, sostanziato di consapevolezza, caratterizzato da eterna beatitudine (sat, cit, ānanda ) e presente nel cuore di ognuno. Tale condizione esistenziale, altamente contagiosa, si aggrava ulteriormente nei momenti di crisi, quindi proprio quando è vitale essere presenti a se stessi e utili agli altri.
Dato che la nostra natura spirituale è essa stessa Ātman, il fraintendimento di avidya è, a ben vedere, anche una grave forma di patologia della memoria. Infatti, l’ignoranza di questa realtà corrisponde a una sorta di amnesia spirituale della nostra relazione eterna con l’Assoluto, per cui ci si dimentica temporaneamente della relazione ecosistemica che ci collega con tutte le creature e con il Divino stesso. La paura, il senso di abbandono e solitudine, i dissidi interiori, la sensazione di essere fuori ruolo, il senso di alienazione, la conflittualità latente, l’impressone di essere stanchi e demotivati, la pandemic fatigue, insomma, ne costituiscono il corollario naturale e, purtroppo, altamente tossico. Nello Śrimad-Bhāgavatam (11.2.37), ad esempio, si afferma che la paura (“bhayam”) proviene appunto da questa identificazione, da parte del jiva, con la natura materiale e dal conseguente oblio del suo ruolo nella relazione con il Divino.
La Bhagavad-gītā insegna che la memoria di Dio si recupera facendo e che l’entrare in rapporto con il Divino tramite il desiderio di poter compiere azioni con Lui, di esserGli utili, agendo sotto la guida di un Maestro, in linea con il dharma, può riattivarla. Si tratta di cambiare il proprio abituale paradigma, collocandosi alle dipendenze di un sistema di ordine superiore, non per fini circoscritti, egoici, ma a beneficio di tutti, consapevoli del fatto che le nostre capacità, le persone che ci circondano, i mezzi materiali, le circostanze in cui operiamo, ci siano stati consegnati in dotazione nella giusta misura per svolgere il nostro compito nel migliore dei modi. L’azione, così illuminata, bhakta, diviene azione di successo. Essa non comporta mai stanchezza. Al contrario, essa rigenera chi la compie e chi la riceve. Il suo risultato è, infatti, in grado di soddisfare l’anima, non l’ego, non essendo più compiuta nell’ambito, deludente e sfiancante, del relativo, ma entro una prospettiva più allargata, stabile e quieta: quella dell’Assoluto che libera, alleggerisce e rincuora, che moltiplica il benessere e lo diffonde, sotto forma di contagio terapeutico.
L’oblio stesso è di provenienza divina e, come tutte le cose, fa parte del dharma e dei lila. Come afferma Krishna nella Bhagavad-gītā (15.15), infatti, da Dio provengono “il ricordo, la conoscenza e l'oblio” e in questo śloka sono quindi eternizzate le istruzioni del programma di guarigione dalla pandemia di avidya. L’oblio è ciò che conduce il jiva a dimenticare non appena egli ha lasciato il proprio corpo. Il Signore dota tuttavia il soggetto degli strumenti per riprendere l’attività laddove l’aveva lasciata, dandogli la possibilità di fare nuove esperienze, di ricordare la propria origine spirituale e quindi di conoscere progressivamente l’Assoluto. Krishna è nel cuore di ogni essere, per cui ogni essere ha bisogno di comprendere Krishna ed è di conseguenza naturalmente votato a passare dall’oblio alla memoria della relazione eterna, agendo in funzione dell’apprendimento della propria vera natura e di quella del Divino.
Operare per il dharma, tramite l’azione illuminata, significa assumere un atteggiamento etico improntato a un ordine superiore di esistenza. Mettersi al servizio di quest’ordine significa agire nel paradigma dell’Assoluto, ponendosi al riparo dall’incostanza, dalla confusione, dalla precarietà, dalla conflittualità e dalla sofferenza connaturati nella prakriti. È un agire disinteressato, senza aspettative del risultato, che segue un istinto archetipico primario, a sua volta radicato nel cuore di ogni essere vivente. Questo agire ‘privo di causa’ (Śri Caitanya Mahaprabhu, nello Śikṣāṣṭakam 4, lo chiama appunto “bhaktir ahaitukī”) opera con gioia ed è esso stesso portatore di gioia, in quanto è mosso da una forma illimitata di amore per il Divino e per il vivente. Per questo amore, ogni separazione, quindi ogni momento di oblio, prelude a una nuova unione, dato che conduce con certezza a una rinnovata consapevolezza del proprio ruolo nel disegno dell’Assoluto e alla reminiscenza della relazione eterna con Dio.