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Gioire nella sofferenza

Nella vita di ognuno di noi accade, prima o poi, che eventi avversi ci travolgano arrivando a spegnere la speranza: è proprio allora che ci viene donata la più grande opportunità di evoluzione personale.
In quei momenti, si schiude la porta della nostra dimora interiore verso livelli di comprensione via via più sottili, più profondi, in cui possiamo esperire un gusto fino ad allora ignoto.
Il caleidoscopio di negatività e incertezze proiettate dalla situazione attuale inasprisce la precarietà in cui versiamo: chi perde il lavoro, chi gli affetti più cari, chi semplicemente (invero tutt’altro che semplicemente) la motivazione per il suo operato quotidiano.
Quando sopraggiunge un problema, esso porta intrinsecamente in sé la relativa soluzione, che viene disvelata all’individuo soltanto attraverso la sua esperienza.
Attendere la manifestazione di eventi favorevoli equivale a raccogliere, nel giardino della nostra esistenza, i fiori più belli e profumati in spirito di offerta solo quando sono giunti alla loro piena maturazione.
Il germoglio, realtà ancora solo parzialmente manifestata, non produrrebbe la completa soddisfazione né di chi dona, né di chi riceve, poiché la realtà non si è ancora rivelata nella sua forma più piena e fulgente. 

Ma come accompagnare tale attesa, sovente penosa e irta di ostacoli?

Una prima via, suggeritaci dal celebre mistico Patanjali, consiste nel distacco emotivo (vairāgya) e nella pratica costante (abhyāsa), ininterrotta e gioiosa per un avvicinamento alla nostra dimensione più intima.
Ci sono diversi altri percorsi per vivere l’attesa durante questa nostra esistenza, temporanea come una goccia d’acqua posata su un petalo di loto, secondo il grande poeta vaishnava Govinda dasa Kaviraja.
Questi percorsi sono tracciati con assoluta limpidezza dalla Bhagavad Gita e dagli Yoga Sutra, ma tra essi spicca, per la sua commovente semplicità, l’affidarsi (che significa “darsi con fiducia”) incondizionato al Principio Superiore.
E’ frequente sostenere che ci abbandoniamo a qualcosa, ad una persona, ad un ideale.
Ma l'Abbandono, nel senso di affidarsi, è uno stato difficile da realizzare, perché in esso franano tutte le fondamenta dell’ego, cui saldamente rimaniamo ancorati per la paura che, oltre, regni solo la sofferenza. La paura ci risucchia tuttavia in una palude mortifera.
In realtà, l’Abbandono reale, Īśvarapraṇidhāna, è la più diretta via di salvezza per ogni essere umano: implica una pura accettazione di ciò che E’, e non potrebbe essere altrimenti, e tutto diventa un magnifico gioco. Dal gioco nasce la curiosità, dalla curiosità la conoscenza, dalla conoscenza realizzata l’evoluzione interiore.
Come quando ci si libera di un fardello trasportato per lungo tempo, pensandolo indispensabile al nostro benessere, decidere di abbandonarsi realmente e definitivamente produce un immediato senso di leggerezza, oltre a stravolgere in meglio la chiave di lettura della nostra esistenza incarnata. Senza pesi possiamo percorrere il sentiero, e, inoltre, in uno stato privo di distrazione ed esenti da paura (abhaya) possiamo aiutare il prossimo a percorrerlo con noi. Nell’affidarsi ad un piano superiore, ogni istante rimaniamo in ascolto di cosa accadrà, ben consapevoli di possedere un limitato controllo degli accadimenti esteriori. Gli eventi materiali, con le loro tinte variopinte, vanno, vengono, si trasformano; ciò che rimane è la nostra attitudine coscienziale mentre li viviamo.  L’azione autentica di affidarsi supporta l’azione consapevole e disinteressata, il servizio orientato verso uno scopo superiore (sevana). 

La pratica dell’affidarsi deve essere accompagnata da tapas (rigorosa coerenza). Non a caso Patanjali nel Sadhana Pada riserva una posizione preminente alla definizione del Kriya Yoga, lo Yoga dell’azione, secondo cui esso consiste in tapas, svādhyāya (studio di sé) e Īśvarapraṇidhāna (abbandono a Dio.
In tapas sono enucleati i principi dell’equilibrio (sama) e della perseveranza con retto entusiasmo (utsāhaḥ).
La ricchezza immensa della lingua sanscrita è dimostrata dal significato delle parole che si fanno veicolo di significati profondi, spesso intraducibili con un termine unico nelle lingue moderne.
Tapas in sanscrito significa ‘tepore’, il tepore che nutre la rigorosa coerenza, quindi ascesi. Non è un fuoco distruttivo, né una brace in via di spegnimento. È la fiamma vitale, sottile e costante, che alimenta la nostra ricerca senza eccessi con un equilibrio da conservare in ogni circostanza. Ecco, dunque, che l’affidarsi è tutt’altro che un mero scoramento o un atto di sfiducia o, tanto meno, una rinuncia alla gestione responsabile di sé stessi. Rappresenta piuttosto il contrario: prendere in mano la propria esistenza ben consapevoli che limitato è il controllo che possiamo esercitare sulle contingenze esteriori, ma pieno è quello che ci è dato gestire per migliorare la nostra persona, sciogliendo i nodi energetici e psichici che ancora ci impediscono di penetrare lo stato di ananda (beatitudine), proprio della dimensione spirituale.

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