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Realizzare quel che pensiamo impossibile: il salto di Hanuman

Spesso chi ricerca la spiritualità sperimenta il senso di inadeguatezza. Si tratta di una difficoltà a percepirsi in grado di compiere ciò che si è compreso nella mente e accolto nel cuore per realizzare un orientamento desiderato ma spesso ostacolato da vari condizionamenti. Questi si sono composti nel corso dell’esistenza e ingombrano la strada quando è già stata intrapresa, componendosi come un limite che comporta a volte una vera e propria incapacità di determinazione. Limes nella lingua latina è il confine, la linea divisoria fra due territori, un tempo fatta di pietre bianche posate sul terreno, come ancora oggi si vede fra i campi agricoli. Si tratta di una demarcazione posta dall’esterno, non realmente esistente; sotto le pietre il terreno è unico, quell’humus che genera la vegetazione è il medesimo a destra e a sinistra della linea di confine. Non succede mai niente di buono quando ci focalizziamo sulla divisione perdendo di vista che, sotto una superficie caratterizzata da manifestazioni transitorie che si alternano, vi è una realtà comune che è l’origine di tutte le risorse. La divisione fra ‘non essere capaci’ ed ‘essere capaci’ di compiere qualcosa, di rinunciare a qualcosa, di seguire la sadhana, è una divisione debole come quella determinata dalle pietre bianche di confine. Certo, conoscere i propri limiti è fondamentale e ci permette di agire in equilibrio, ma è altrettanto importante considerare che non siamo mai fermi e che il processo evolutivo passa per prove da superare; identificarsi con i propri limiti ci impedisce di esprimere il nostro potenziale, ci impedisce di gioire.

Per questo motivo, nei seminari, Marco Ferrini parla così frequentemente della predisposizione all’azione spiegando che è necessario esercitarsi a portarsi in uno stato centrato prima di agire, entrare in rapporto con se stessi. Lo studio delle Scritture agevola lo svadhyaya, lo studio di se stessi che porta conoscenza e confidenza col metaspazio del cuore, un luogo libero da ogni divisione, non subito individuabile ma in tutti presente, infinito ed eterno.

Il Vedanta, quella parte terminale dei Veda che offre una sintesi della rivelazione vedica, presenta alcuni versi che hanno lo scopo di educare alla conoscenza di questo spazio che tutto sostiene. Un luogo che nel verso I.3.14 del Brahma Sutra è chiamato Dahara e che viene descritto come un piccolo spazio vuoto. Utilizzando la definizione del Brahman dei Veda, possiamo definire quello spazio come il luogo “in cui tutti gli attributi raggiungono l’infinito”. Baladeva, discepolo di Shri Caitanya, nel suo commento al Vedanta spiega infatti che la città del Brahman, che nella tradizione cristiana è chiamato il Regno di Dio, è nel cuore di chi si è posto in un atteggiamento di adorazione e proprio in virtù di tale attitudine può entrare in contatto con quel piccolo spazio vuoto che nella tradizione Bhagavata è chiamato Vishnu e Krishna. I versi del Vedanta sono straordinariamente efficaci nell’insegnarci che tutto ciò che appartiene ad Ananda (la beatitudine, la gioia) proviene dal contatto con questo spazio, non è nostra, quel che è in nostro potere è cercare di mantenere questo contatto sempre attivo.

Gli Shastra ci insegnano che quando questo contatto è stabilito succedono cose straordinarie, i limiti possono essere superati, senza paura, senza ansia, e la morsa dell’ego cede. Allora possiamo realizzare quel che pensavamo impossibile, proprio come Hanuman, della dinastia Vanara, tradizionalmente considerato l’incarnazione della devozione e dello spirito di servizio. Nel Ramayana leggiamo che, con l’intenzione di liberare Sita, la moglie di Rama, pressando con forza sovrumana la montagna Mahendra, Hanuman compie un salto grande come l’oceano per approdare a Lanka e nel volo prova gioia, una gioia che era stata percepita anche dall’oceano sovrastato dal volo. Per compiere quella straordinaria impresa Hanuman l’aveva meditata proprio in quello spazio del cuore.

La narrazione ci insegna anche che ci vuole un tempo di meditazione sufficiente per stabilire il contatto, la fretta non permette l’accesso a questo luogo sacro che è vuoto, non ha tempo.

Anche Shrila Prabhupada dopo aver preso i voti di rinuncia, si tenne a lungo a contatto col luogo sacro del tempio di Radha Damodar a Vrindavana, facendo vita ritirata, dedicandosi per sei anni alla traduzione in inglese dello Shrimad Bhagavatam. La trasformazione nella vita di migliaia di persone, che dagli anni ‘70 ad oggi sono entrate a contatto con l’insegnamento di questo Santo della tradizione Vaishnava, proviene da quel salto che anche Shrila Prabhupada all’età di sessantanove anni, ha compiuto attraversando l’oceano, da Calcutta a New York, portando il cuore ben oltre l’ostacolo.

Tiziana Palmieri

Per approfondire queste tematiche direttamente con Marco Ferrini:

Seminario di Visualizzazione Meditativa Yoga, 2/3 marzo 2024

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