OLTRE LA VITA pt.2
Elizabeth Kubler-Ross (1926-2004) è considerata a pieno titolo la fondatrice della psicotanatologia. Il suo celebre libro “Sulla morte e sul morire”(1969) rappresenta una pietra miliare sull’argomento. Psichiatra di grande sensibilità e umanità, si accorse subito, fin dall’inizio della sua carriera di medico presso la clinica universitaria di Chicago, che persino gli stessi operatori sanitari che lavoravano nei reparti per malati gravi negavano di avere in cura dei morenti; comprese cioè che il dolore e la morte sono gli ultimi tabù della nostra società e realizzò quanto fosse importante, oltre all’assistenza prettamente tecnica e sanitaria, prestare aiuto psicologico a un malato terminale. La sua innovazione consiste nell’aver compreso che la morte è un aspetto della vita e che è possibile aiutare il paziente durante il processo del morire semplicemente adottando un approccio aperto e leale, lasciando emergere le paure e i sentimenti legati al processo del distacco.
E’ grande il merito di questa straordinaria figura: grazie alla sua esperienza è stato avviato in tutto il mondo occidentale il processo di sviluppo delle strutture sanitarie dedicate all’assistenza psicologica al malato terminale e ai suoi familiari (Hospices e Lungodegenze) e ne è derivato un conseguente forte interesse intorno al tema della vita dopo la morte.
“Un uomo sta morendo e, nel momento in cui ha raggiunto l’acme della sofferenza fisica, sente dalle parole del dottore di essere clinicamente morto. Avverte allora un rumore sgradevole, come un tintinnio o un ronzio, e contemporaneamente sente di muoversi con estrema rapidità lungo una galleria buia. Giunto al termine, avverte improvvisamente di essere uscito dal proprio corpo ma di trovarsi ancora nell’ambiente in cui si trovava prima, e vede in lontananza il suo stesso corpo, come se egli fosse soltanto uno spettatore. Da quella posizione privilegiata osserva il tentativo di rianimazione e prova un senso di sconvolgimento emotivo. Dopo breve tempo, si riprende e si abitua alla sua strana condizione. Avverte di avere ancora un “corpo”, ma di una natura assai diversa e dotato di poteri assai diversi da quelli del corpo fisico che ha lasciato dietro di sé. Cominciano allora ad accadere altre cose. Altri individui gli si fanno vicino per aiutarlo. Scorge gli spiriti di parenti e amici già morti e gli appare uno spirito di amore come egli non ha conosciuto mai: un essere di luce. Questo gli rivolge, senza parole, una domanda che lo esorta a valutare la propria vita, e lo aiuta mostrandogli, come in un playback, gli avvenimenti più importanti della sua esistenza. A un tratto si trova vicino a una barriera, o a un confine, che sembra rappresentare la divisione tra la vita terrena e l’altra vita. E tuttavia sente di dover tornare sulla terra, sente che non è ancora giunto per lui il momento della morte. Tenta di opporsi perché è ormai affascinato dall’altra vita e non vuole tornare in questa. È sopraffatto da intensi sentimenti di gioia, amore e pace. Tuttavia si riunisce in qualche modo al suo corpo fisico e torna alla vita.
Più tardi tenta di riferire agli altri la sua esperienza, ma gli riesce difficile farlo. Non trova parole umane capaci di descrivere quegli episodi non terreni. Scopre inoltre che gli altri non lo prendono sul serio e rinuncia a parlare. Ma l’esperienza conosciuta segna la sua esistenza, in particolare le sue opinioni sulla morte e il suo rapporto con la vita”.
Quella appena descritta è un’esperienza tipica di pre-morte narrata nel libro “Nuove ipotesi sulla vita oltre la vita” (1997), scritto dal medico e psicologo americano Raymond Moody, autore noto per i suoi numerosi e dettagliati studi sugli stati di pre-morte.
Tra le prime esperienze di questo tipo va ricordata anche quella descritta – e direttamente sperimentata - da C.G. Jung (1875-1961), psichiatra e pionere della psicoanalisi, nel suo testo autobiografico “Ricordi, sogni e riflessioni”: "Quel che viene dopo la morte è qualcosa di uno splendore talmente indicibile, che la nostra immaginazione e la nostra sensibilità non potrebbero concepire nemmeno approssimativamente… Prima o poi, i morti diventeranno un tutt’uno con noi; ma, nella realtà attuale, sappiamo poco o nulla di quel modo d’essere. Cosa sapremo di questa terra, dopo la morte? La dissoluzione della nostra forma temporanea nell’eternità non comporta una perdita di significato: piuttosto, ci sentiremo tutti membri di un unico corpo."
Psichiatra ed esperto di reincarnazione, Brian Weiss pratica da molti anni la terapia dell’ipnosi regressiva per alleviare disturbi fisici ed emozionali. La regressione alle vite precedenti, benché coinvolga una discussione tuttora aperta sulla veridicità dell’esperienza dei soggetti ipnotizzati, è in realtà un metodo molto antico di conoscenza del sé che mira ad un ricongiungimento con la memoria della propria vita passata.
Scrive Brian Weiss:
Noi siamo immortali, eterni spiriti sempre amati. Siamo anime in un immenso mare spirituale, popolato da altri esseri della stessa natura. Alcuni sono nella forma fisica, ma la maggior parte no. L’amore è il motore dell’universo e la più potente energia di guarigione. È un amore che trascende i limiti del mondo fisico e non si esaurisce con la vita terrena.
“Mi ritrovai in un mondo completamente nuovo. Il mondo più bello e più strano che avessi mai visto... Luminoso, vibrante, estatico, stupefacente. C'era qualcuno vicino a me: una bella fanciulla dagli zigomi alti e dagli occhi intensi. Eravamo circondati da milioni di farfalle, ampi ventagli svolazzanti che si immergevano nel paesaggio verdeggiante per poi tornare a volteggiare intorno a noi. Non fu un'unica farfalla ad apparire, ma tutte insieme, come un fiume di vita e colori che si muoveva nell'aria." Queste sono alcune delle parole usate da Eben Alexander, neurochirurgo e professore alla Medicai School dell'università di Harvard per descrivere il Paradiso nel suo bellissimo libro Milioni di farfalle (2016). Il dottor Alexander è uno scienziato che non ha mai creduto alla vita dopo la morte eppure è toccato a lui esserne testimone. Nel 2008 ha contratto una rara forma di meningite e per sette giorni è entrato in coma profondo che ha azzerato completamente l'attività della sua corteccia cerebrale. In pratica il suo cervello si è completamente spento, eppure una parte di lui era ancora vigile e ha intrapreso uno straordinario viaggio verso il Paradiso. Al suo risveglio il dottor Alexander era un uomo diverso, costretto a rivedere le sue posizioni profondamente razionali sulla vita e sulla morte.
La Tradizione Indovedica e il concetto di morte
Il professor Marco Ferrini scrive nel suo libro Psicologia del ciclo della vita:
“Quella dell’identità è una questione tuttora aperta, che ha stimolato fin dall’antichità le menti più fervide. Filosofi e psicologi si sono sempre posti il problema collegato al fenomeno morte, senza essere in grado, peraltro, di svelarne l’arcano.
Perché le persone hanno tanta paura della morte? Proprio perché hanno un problema serio d’identità: non sanno chi veramente sono; credono di essere un’entità storicamente definita, solo che questa immedesimazione con la storicità, con la posizione sociale, deriva da false concezioni di sé, da una distorsione del senso dell’io. È sostanzialmente conseguenza di un’identificazione acritica con un ego falso e distorto, a causa del quale il soggetto si percepisce diverso da quello che in realtà è: qualcuno o qualcosa collegato alla società attraverso rapporti di status, ruoli, funzioni e quant’altro. Nella nostra epoca c’è un bisogno impellente di integrazione culturale, anche perché ormai l’indiano, il pakistano, l’afghano, l’indonesiano, il mediorientale, il cinese, l’africano vivono tra noi, hanno il negozio nella strada a fianco e quindi l’incontro e lo scambio con gente di altre culture fa parte del quotidiano.
Gli attuali ambiti di ricerca, la medicina in particolare, dispongono di strumenti raffinatissimi, di potenti computer, di know how versatili, di mezzi d’intervento assai efficaci, però, rispetto a questo sviluppo, sul versante della scienza positiva si conosce ancora ben poco in relazione al soggetto, all’individuo in quanto persona.
Sebbene la morte sia l’unica certezza dell’esistenza, perché non se ne vuole parlare, né sentirne parlare? Perché se ne ha terrore? La cultura occidentale moderna, nonostante le prodigiose conquiste tecnologiche, non fornisce una reale comprensione del fenomeno morte, né di ciò che avviene durante e dopo il trapasso.
Antichi saggi indiani, rishi, guru, coloro che hanno tramandato il sapere vedico, hanno studiato i meccanismi che inducono comportamenti errati, collegati alla percezione distorta di sofferenza e morte. Tramite i loro insegnamenti sappiamo come riconoscerli mentre avvengono, sappiamo persino come e in quali circostanze aspettarceli e anche come bloccarli, in noi e negli altri. Riteniamo un dovere, perché fa parte della nostra sensibilità e della nostra responsabilità, umana e professionale, trasmettere questo sapere a medici, psicologi, infermieri, parenti, amici del malato terminale o chiunque altro, in quanto l’evento morte riguarda proprio tutti, nessuno escluso.”
E ancora aggiunge, nel capitolo dedicato alle “Paure del morente”:
“Nel perenne nascere e dissolversi di corpi, emozioni, impressioni e pensieri che caratterizza la vita nell’universo, possiamo scorgere la presenza di un Ordine superiore, impercettibile ad uno sguardo superficiale, ma fulgido e ben evidente agli occhi di chi ha imparato a vedere la realtà oltre il velo delle apparenze.
Come spiegavano anche gli antichi filosofi greci, non è il caos a dominare la realtà, ma un ordine divino che i greci stessi definivano kosmos e che nella cultura vedica viene indicato con il termine sanscrito dharma. Questo ordine superno gestisce tutto il fluire della vita, dallo schiudersi delle uova degli insetti allo sbocciare dei fiori, dai bioritmi del corpo alle orbite degli astri nel cielo.
Il Bhagavata Purana, meravigliosa opera della tradizione Bhakti e Vedanta, è tutto imperniato sul racconto di un grande imperatore destinato a morire entro sette giorni e di un saggio illuminato che per aiutarlo in questo drammatico passaggio esistenziale gli trasmette insegnamenti universali, illuminando la sua coscienza con antiche narrazioni che svelano lo scopo e il senso della vita. Il linguaggio di questi insegnamenti, ricchi di visioni trascendenti espresse con un linguaggio mitico e simbolico, è l’ideale affinché il morente si orienti verso una nuova esistenza, più proficua e felice di quella che sta lasciando e che ormai è giunta al termine”.
Si legge nella prefazione allo “Srimad Bhagavatam”:
Niente, vivente o inanimato, proviene dalla materia, ma al contrario, è la materia inerte che trae origine da ciò che è vivente. Per esempio, il corpo materiale, a contatto con l’essere vivente, diventa un organismo animato. Gli uomini di scarsa intelligenza credono erroneamente che l’essere vivente sia quella meravigliosa macchina che è il corpo, mentre in realtà la macchina fisica trova la sua ragione di esistere nell’essere vivente e diventa completamente inutile non appena la scintilla vivente l’abbandona. Similmente, la fonte principale dell’energia materiale nella sua totalità è la Persona Suprema. Il principio di vita è detto Brahman (Sua Divina Grazia A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada, Introduzione allo Srimad Bhagavatam).
"Re Parikshit, consapevole di dover morire entro una settimana, scelse di investire il tempo rimanente in ciò che era più prezioso: la propria realizzazione spirituale. Si dedicò all’ascolto delle antiche narrazioni del Bhagavata Purana, enunciate dal saggio Sukadeva Goswami, rinunciando a ogni attaccamento materiale, consapevole che le attrazioni del mondo terreno sono un miraggio, che distrae l’essere umano dalla ricerca di se stesso e della relazione d’amore con Dio. L’origine dell’uomo non è materiale, perché la sua essenza è di natura divina; rinasce nel mondo, nel susseguirsi del samsara – ciclo di morti e rinascite – finché non realizza la propria spiritualità, elevandosi ad essere umano perfetto. La consapevolezza di sé, dell’eternità dell’anima, consente di non identificarsi nel corpo morente, nella sofferenza dovuta alla vecchiaia e alla malattia, superando la paura e la falsa credenza che alla morte fisica termini anche la vita. Non saper discernere tra Realtà e apparenza è una tragedia, ma lo Shrimad Bhagavatam ci consente di distinguere tra visibile e invisibile, imparando a vedere con gli occhi dell’anima."
E infine, è chiaramente affermato nella Bhagavad-gita:
Come l’anima incarnata passa, in questo corpo, dall’infanzia alla giovinezza e poi alla vecchiaia, così l’anima passa in un altro corpo all’istante della morte. La persona saggia non è turbata da questo cambiamento. (Bhagavad-gita II.13).
Ogni essere vivente è un’anima spirituale, distinta da tutte le altre. A ogni istante l’anima cambia corpo e si manifesta nella forma di un bambino, di un adolescente, poi di un adulto e infine di un vecchio. Ma l’anima rimane sempre la stessa e non subisce alcun cambiamento. Infine, alla morte del corpo, l’anima trasmigra in un altro involucro.