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Il Teatro Vedico

La scienza psicologica dell’India classica propone strumenti per ristabilire l’armonia nel complesso mente-corpo di un individuo non come fine a sé stessa, ma come strumento per conseguire lo scopo ultimo dell’esistenza: la realizzazione della propria natura ontologica dell’origine divina senza la quale è impossibile sviluppare appieno la propria personalità e raggiungere uno stato di completa soddisfazione interiore. Come sottolinea nei suoi lavori Marco Ferrini, Ph.D. Psychology, fondatore dell’Accademia delle Scienze Tradizionali dell’India, per la psicologia indovedica gli oggetti psichici (idee, pensieri, immagini, emozioni, sentimenti, ecc.) non sono meno reali e consistenti di quelli fisici, caratterizzati da una loro propria conformazione e funzione, rilevabili però con una metodologia differente rispetto a quella utilizzata per i corpi tangibili, e consistente principalmente nel metodo introspettivo, molto più consono e adeguato all’indagine psicologica rispetto a quello epistemologico definito pratyaksha e fondato sulla percezione sensoriale.

“Le scuole psicologiche moderne che non interpretano il processo psichico individuale in un orizzonte teorico di tipo materialistico-positivistico, si differenziano pur sempre dalla scienza psicologica indovedica, in quanto quest’ultima riconosce l’esistenza di una realtà ulteriore rispetto al corpo e alla mente; tale realtà viene identificata con la forza vitale e rappresenta il soggetto cosciente, atman, colui che fa l’esperienza di vedere, pensare, sentire, ecc., servendosi degli strumenti psicofisici”(Marco Ferrini Pensiero, azione, destino. Potere e uso del pensiero. Centro Studi Bhaktivedanta). Nel Bhagavata Purana, un compendio di saggezza vedica, c’è un verso famoso che afferma che qualsiasi dovere espletato, qualsiasi ruolo svolto non hanno valore se non suscitano in noi il gusto dell’amore, il gusto per la realtà. Senza uno scopo chiaro, senza una conoscenza finalizzata all’evoluzione spirituale, una performance teatrale diventa un sovrapporsi di suoni, immagini, sentimenti, brandelli di sensazioni e tutto ciò turba, confonde la mente, accrescendo il disagio esistenziale.

Nel teatro vedico, che attinge dalle fonti di una tradizione antica di millenni, l’autentica opera d’arte è considerata quella che attraverso il linguaggio simbolico educa la mente a percepire i concetti di alta psicologia, invitando nel mondo della trascendenza oltre la mera rappresentazione sensoriale.

Per la psicologia vedica assistere ad una scena di violenza non è un’esperienza catartica bensì contaminante per la psiche. “Un qualcosa si libera del suo pathos e della sua negatività solo quando viene profondamente compreso e superato. La catarsi è una trasmutazione dell’emotività psichica che avviene naturalmente quando si è in contatto con il Divino, con persone di natura divina, con il messaggio spirituale” (M.Ferrini, Psicologia e Terapie, Centro Studi Bhaktivedanta).

Nell’India antica la rappresentazione teatrale veniva offerta come un sacrificio dove si ricreava l’ordine cosmico universale; un attore, come un sacerdote con i complessi riti di purificazione purvaranga, apriva, alla divinità e a tutti gli attori partecipanti, il luogo sacro della recitazione.

Secondo il pensiero antico indiano, sia le leggi fisiche che quelle etiche sono espressioni di un unico ordine universale di origine divina, riscontrabile non solo all’esterno, ma anche nella mente e nella coscienza individuali. Scopo della visione teatrale è quello di ricostituire l’Ordine divino (ritam) che consente l’ottenimento della liberazione attraverso la sperimentazione del rasa, il sentimento estatico di natura trascendente.

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