Amare in tempi di crisi
In origine, il termine “crisi”, di derivazione greca, era utilizzato per indicare l’atto di separare il grano dalla pula e trasmetteva sia il significato più letterale di ‘dividere’, sia quello, invece traslato, di ‘scegliere’ o ‘discernere’ tra due possibilità.
Nella vita di tutti i giorni, ci capita spesso di interpretare eventi, persone e situazioni in questi termini. La crisi è, infatti, una situazione problematica di forte tensione polare, nella quale la percezione dell’esistenza di una frattura, di una separazione, di uno iato ontologico nel tessuto, altrimenti unitario, dell’esperienza, attiva nel soggetto la forma mentis della mutua esclusione, dell’aut aut: “se c’è questo, allora non c’è quello”; “se questo è preferibile, l’altro è da scartare”; “se questo è buono, l’altro è cattivo”; “se questo è amico, l’altro è nemico”. Spesso, questo principio si applica anche al campo delle relazioni, sia quelle interpersonali (genitori-figli, coniugi, amici, fratelli, vicini di casa), sia quelle che coinvolgono il soggetto in una particolare situazione o stato di cose (difficoltà al lavoro, malattia, tradimento, lutto): “quello in cui credo non è quello in cui credi tu”; “la mia idea di pace non è come la tua”; “se non fossi in questa situazione difficile, sarei felice”; “desidero stare con te, ma quando siamo insieme soffro”; “se non ti comportassi in questo modo, andremmo d’accordo”, e così via.
Nella vita incarnata, quindi fortemente condizionata dall’energia prakritica e materiale, in ogni relazione si annidano i germi della crisi. Questo fatto si verifica per via della tendenza individuale a rilevare una differenza, una distanza tra sé e l’altro, tra sé e gli eventi di cui si fa esperienza, tra il mondo interno e il mondo esterno. I molti casi, questa percezione della frammentazione, della separazione e della discontinuità genera automaticamente quella, ad essa complementare, dello spazio dell’azione come luogo della competizione, come dimensione dell’urto, come arena del conflitto tra posizioni contrapposte. Sotto il controllo dell’energia prakritica, la crisi muta insomma le proprie fattezze, passando dall’essere una situazione della ‘scelta’, un’occasione di ‘discernimento’, a una condizione preparatoria della ‘gara’, della ‘disputa’, del ‘vinci o perdi’.
A dire il vero, come apprendiamo dai testi della Tradizione indovedica, è sempre la percezione soggettiva a costruire l’idea che ogni jiva(essere vivente) si fa della realtà, in quanto questa stessa percezione non si fonda su fattori esterni, oggettivi ed estranei al controllo cosciente, bensì sulla qualità del carico di energia psichica (pratyaya) che l’individuo attribuisce agli oggetti dei sensi. Questo carico è, infatti, collocato nel rivestimento grossolano del corpo (annamayakośa) e in quello sottile della mente (manomayakośa) individuali. La condizione in cui questi strati si trovano, per via delle azioni virtuose o, a seconda dei casi, non virtuose, compiute dal soggetto, condiziona fortemente il livello di coscienza di quest’ultimo, quindi anche il modo in cui egli percepisce e interpreta fatti, situazioni, relazioni.
Un secondo significato, sempre di provenienza greca, del termine "crisi", e collegato agli altri già citati, si situa nell’ambito medico, dove indica il ‘momento apicale di un morbo’, la fase critica in cui la malattia può degenerare, portando a conseguenze disastrose, perfino alla morte, oppure può regredire, conducendo il paziente alla guarigione. Anche questo significato di “crisi” si applica all’ambito delle relazioni, in quanto spesso la tensione psichica addensatasi tra noi e l’altro, sotto forma di vṛtti, per effetto dei samskara (esperienze sedimentate nell’inconscio, il karmaśaya) e delle vāsanā(tendenze ripetute e abituali), può regredire morbosamente verso la frattura insanabile, oppure, può evolversi come processo di riparazione e risanamento.
In queste situazioni, la ‘crisi’ è il momento cruciale di una problematica già in atto da tempo, un morbo psico-relazionale che, prima o poi, raggiunge il proprio apice e in cui tutto può accadere, volgendo al peggio o al meglio, in base al livello di coscienza raggiunto dal soggetto fino a quel momento. Questo particolare aspetto della crisi, come potenzialità di sviluppo, è il momento chiave in cui siamo posti di fronte alla possibilità di decidere consapevolmente e preventivamente come percepire la differenza, scegliendo di interpretarla come un problema, ovvero come un fattore diairetico(divisivo, parcellizzante), quindi potenzialmente distruttivo, oppure, come un fattore sinaptico(unificante, aggregante), quindi come una preziosa opportunità da cogliere tempestivamente, per ricostruire e risanare i rapporti. La prima scelta si colloca sul piano del relativo ed è più facile, diffusa e consueta. Essa induce a chiudere ogni possibile dialogo e comporta inevitabilmente una recrudescenza del morbo individualistico nella relazione. La seconda scelta presuppone un modo e un punto diversi di osservazione, conducendo invece al risanamento e al superamento della crisi.
Nello Śrimad-Bhagavatam, troviamo la descrizione di alcuni aspetti fondamentali di questo secondo modello comportamentale, utile in tutte le circostanze problematiche che potremmo trovarci a vivere nel corso della nostra esistenza. Nel Canto 4, il più grande yogie devoto vaiśnava, Śiva, canta un meraviglioso inno di lode a Kṛṣṇa, Dio, Signore dello Yoga (Yogeśvara) e Signore Supremo. Uno degli epiteti con cui Śiva si rivolge al Divino destinatario di questo inno è significativo: “kṛṣṇāyakuṇtha-medhase” (4.24.42).
L’espressione è traducibile come “Kṛṣṇa, Colui la cui intelligenza non è mai ostacolata da alcuna condizione”. In altre parole, ciò che Kṛṣṇa compie non è limitato da tempo, spazio e circostanze, in quanto Egli, pur agendo nella prakriti, non ne è mai condizionato (vedi anche Bhagavad-gita, 9.9). La prospettiva dell’Assoluto è, infatti, inclusiva delle differenze e delle convergenze, ma le trascende entrambe, essendo ad esse superiore. Questa prospettiva contempla ogni cosa in modo imparziale, come fattori esistenti nel campo dell'azione, ciascuno dotato di uno scopo e di un significato all’interno del dharma. Essa scorge pertanto l’unità dove noi percepiamo solo discontinuità; coglie l’armonia dove noi percepiamo, in modo affrettato, solo frammenti di caos; vede finalità dove noi percepiamo incertezza. Quella del Divino è, dunque, una Coscienza (cit) illimitatamente contemplativa, che osserva senza ostacoli, essendo collocata al di sopra delle distorsioni proiettive (avaranae vikśepa) che, invece, caratterizzano la mente umana, imprigionandola nei ceppi che essa stessa si è costruita. William Blake le chiamava “mind-forg’d manacles”, le nostre manette mentali.
Tuttavia, vedere tutto non è sufficiente. Questa Coscienza divina, che percepisce ogni cosa, oltre le riserve mentali,è anche una Coscienza amante, illimitatamente inclusiva e collocata oltre le riserve anche affettive, dato che Essa non tiene per sé in serbo nulla che non sia anche per l’altro e si astiene dall’avere finalità utilitaristiche, nascoste ed egoiche, nella relazione personale. Ama senza aspettative e incondizionatamente.
Amare non significa, infatti, relazionarsi con l’identico. Quello è amore per se stessi. Perfino quando ci si ritrova proiettivamente nell’altro da sé, in realtà, si sta guardando la propria immagine riflessa, come su uno specchio, condannandosi alla solitudine. Similmente a un serpente che si morde la coda, questo tipo di relazione comporta una stagnazione progressiva nello stesso condizionamento che l’ha generata: l’Ego distorto (ahamkara). Amare, nella prospettiva dello Yoga, è invece interagire proprio con quello che appare a prima vista come alieno, diverso, incompatibile, discordante, difforme, operando all’interno della prospettiva spirituale, ossia entro i parametri dell’Assoluto. Una prospettiva che vede molto, ma decide di dare peso soltanto a ciò che è costruttivo, unitivo, comune, per creare nuove possibilità relazionali e farne esperienza cosciente, al fine di sviluppare una maggiore e più profonda conoscenza del Sé, nel teatro dell’interazione. Amare, quindi, come attivazione di una visione a tutto tondo dell’altro: aperta, sincera, priva di ostacoli percettivi e affettivi. Una visione in cui, lungi dall’ignorare la realtà, il soggetto entra in dialogo aperto e sereno con l’oggetto, e si predispone a introdurre una trasformazione, decidendo di valorizzare l’altrosenza aspettarsi niente in cambio, predisponendosi a cedere qualcosa egli stesso, quindi, cogliendo l’occasione preziosa di liberarsi da qualche antica e radicata ‘manetta’ psicoaffettiva.
Nella filosofia Vaishnava, Aniruddha è l’espansione di Dio che controlla la mente, la quale a sua volta ha il potere, nell’aspetto di Hṛṣīkēśa, di governare i sensi (Hṛṣīkeśendriyātmane). Aniruddha è una forza solare, che ispira a prendere coscienza dell'opportunità di governare la direzione della mente, insegnandoci a discriminare tra il dare peso emotivo, quindi attenzione e nutrimento, a oggetti mentali tossici e distruttivi, forieri di discordia, come l’arroganza, l’orgoglio, la collera, la superbia, la rudezza e l’ignoranza (Bhagavad-gita, 16.4),oppure scegliere di concentrare l’attenzione (dharana) su oggetti dotati di una maggiore salubrità psicoaffettiva, invece seminatori di concordia, come ad esempio lo sviluppo della conoscenza Spirituale, il controllo di sé, la non-violenza, la veridicità, l'assenza di collera, l'avversione per la critica, la compassione, l'astenersi da cupidigia e invidia, la dolcezza, la modestia, la forza morale, la purezza (Bhagavad-gita16.1-3). Dal sistema valoriale di Aniruddha, che governa le unità di misura e i contrappesi della mente, orientando la qualità del pratyaya, scaturisce la capacità di governare i sensi, sotto l’influsso di Hṛṣīkēśa. In questo caso, si tratta della capacità di scegliere quali persone frequentare, quali situazioni sperimentare, ma anche a quali aspetti, nelle relazioni che già siano in corso, conferire salienza, quindi rilievo ontologico, in quanto evolutivi, e quali invece tenere a distanza di sicurezza, perdendo per essi interesse e operando quindi una scelta discriminante rispetto alviśaya, il fascino esercitato dagli oggetti sui nostri sensi e non determinato da fattori esteriori, bensì interiori.
Il modello del Divino come Coscienza indisturbata, che vede e al contempo ama illimitatamente, può essere declinato nella vita di tutti i giorni, iniziando con l’adottare, con paziente e serena determinazione, il codice comportamentale dello Yoga(Yama eNiyama), restando saldi nella percezione del principio spirituale, ad esempio tramite la meditazione quotidiana sui Nomi Divini, restando determinati su un unico obiettivo, la relazione con l’Assoluto (Bhagavad-gita, 2.41), cioè la causa di tutte le cause (“sarva-kāraṇa-kāraṇam”,Brahma-saṁhitā5.1). Sulla base di questi presupposti, è possibile amare tutti sattvicamente, senza riserve, restando al contempo esenti dai possibili effetti collaterali, proprio in quanto la visione virtuosa è aperta, integrale, ma anche incontaminata e capace di attrarre ciò che è puro. Nella crisi, essa permette di mantenere costante la percezione del pericolo, mettendosi per tempo al riparo dalle avversità, dall’imprevisto, dal contagio delle scompostezze altrui. Essa permette di vivere serenamente, collocandosi al di là delle differenze, delle contrapposizioni, delle dualità (dvandva), sul modello del dhira, qualcuno cioè che è in sé, nel pieno controllo di se stesso, quindi non è più turbato dagli eventi, essendo sintonizzato sul piano spirituale.
Sul punto di ingaggiare la battaglia di Kurukśetra, Arjuna esita, lacerato dal dissidio interiore della scelta cruciale, bloccato al bivio tra l’azione e l’inazione. La prima frase che Kṛṣṇa, suo Divino amico e maestro, gli rivolge per sostenerlo nella crisi, è una domanda che indaga le cause interiori della sua stessa afflizione: “kulas tvā kaśmalam idaṁ/ viṣame samupasthitam?”, “da dove provengono tali impurità, in questo momento difficile?” (Bhagavad-gita, 2.2). Con la dolcezza del metodo maieutico e dialogico, caratteristico del modello pedagogico indovedico, in cui l’allievo e il maestro sono parimenti coinvolti in un rapporto amicale e insieme filiale, Kṛṣṇa metterà Arjuna nella condizione di trovare gradualmente tutte le risposte a questa importante domanda. La soluzione al problema, quindi alla crisi, sarà poi glorificata in uno degli ślokafinali dell’opera, in cui Sañjaya, il narratore di primo grado di questa sezione del Mahābhārata, esclama: “O re, quando ricordo la stupenda forma di Kṛṣṇa, ancora più grande è la mia meraviglia, e sempre più intensa è la mia gioia” (Bhagavad-gita, 18.77). Nella relazione con l’altroda sé,ogni occasione è una preziosa opportunità per entrare in relazione con l’Assoluto, con rinnovato stupore e incontenibile letizia. Un’occasione per amare oltre la crisi.