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L’Etica dell’Attore e l’Esperienza del Sublime

L’ammirazione di bellezza e il sentimento spirituale, hanno molto in comune nell’essere entrambi la porta per l’esperienza del sublime. Il sublime, per Kant, «ciò che, anche solo a poterlo pensare, attesta una facoltà dell’animo che supera ogni misura dei sensi».

Angela Ales Bello, docente di filosofia e religione presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università di Roma, partendo dalle pagine del Convivio di Platone, esplora il tema dell’amore nella sua accezione dell’empatia, rintracciando diversi livelli del sentire partendo da quello psicofisico detto “sensoriale” in cui assumono rilievo le sensazioni di attrazione/repulsione, fino a un livello che l’autrice chiama “religioso-sapienziale”, frutto di un cammino conoscitivo e spirituale, di una iniziazione o pedagogia sapienziale: «un processo educativo che ha bisogno di un Maestro, conoscitore della verità, il quale conduce verso il bene».

L’antropologa Suzanne Langer descrive il processo psichico simile alla nozione di catarsi che si esprime in “performance rituale”. Nell’esperienza estetica, il materiale fornito dai sensi viene, secondo la Langer, trasformato: […]
l’emozione estetica scaturisce dal superamento di barriere (costituite da pensiero coatto) e dall’ottenere di penetrare in certe realtà che sono, letteralmente, “ineffabili”; ma il contenuto emotivo dell’opera può essere qualcosa di molto più profondo di ogni esperienza intellettuale…: le realtà ultime stesse, i fatti centrali della nostra breve, senziente esistenza. Il “piacere estetico”, allora, è affine, benché non identico, alla soddisfazione di scoprire la Realtà ultima. Quindi scoprire la “verità artistica” non ha a che fare con i significati razionali, ma con la trasformazione che l’opera nei suoi modi propri induce.

La ricerca dell’esperienza di verità è stata per tutta la vita l’obiettivo del fondatore del conosciuto metodo teatrale, lo scienziato dell’arte dell’attore, Konstantin Stanislavskij (1863-1938). Secondo Stanislavskij, lo spettacolo ha raggiunto il suo scopo, se “lo spettatore dimentica di aver pagato il biglietto, di essere seduto in una poltrona di velluto, di aver lasciato il lavoro solo momentaneamente, di vivere a teatro il suo tempo libero”. Il regista russo interpreta la versione della catarsi in un’esperienza artistica che non si colora dallo sgomento e il terrore delle tragedie antiche ma si offre come la sorpresa di osservare la realtà in uno specchio che non la deforma, ma la propone agli occhi dello spettatore che viene posto di fronte a sé stesso, alla sua realtà profonda. Per raggiungere quella verità così desiderata, Konstantin Stanislavskij aveva introdotto un percorso, che coinvolge il corpo, la mente e l’etica dell’attore. Per riattivare le forze creative, per ritrovare il “tesoro” nascosto e renderlo visibile, l’attore doveva raggiungere una disciplina tale da porre ordine nella sua mente; questo significava riuscire a ricomporre i brandelli dei pensieri e delle emozioni, così da ricondurli entro contorni vivi e precisi, per costruire immagini che si collochino in uno spazio interiore ordinato.