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Esistono gli atei?

La domanda che da il titolo a questo articolo può suonare strana. Per lo più tutti noi conosciamo o quantomeno abbiamo sentito parlare persone che dichiarano di non credere in Dio e che, pertanto, si definiscono atee. Ad una prima analisi tutti dovremmo, quindi, concordare sul fatto che gli atei ovviamente esistono. Sono personalmente convinto che, come spesso avviene, un’analisi più approfondita potrebbe, tuttavia, condurre ad una conclusione inizialmente controintuitiva. Cercherò, dunque, di spiegare perché gli atei non esistono e, per farlo, partiremo dal definire il significato che attribuiamo al concetto di Dio.
Ho volutamente utilizzato una perifrasi perché, va detto, non si può definire Dio, sarebbe una contraddizione in termini. I saggi di tutte le tradizioni ci dicono che si può fare esperienza di Dio ma non certo definirlo in alcun modo.
Stando alle pendici di una montagna, per quanto mi sforzi, potrò descriverne solo la parte che osservo mentre la parte esposta sulla vallata opposta mi sarebbe del tutto ignota. Se, invece di salire, decidessi di raggiungere la vallata opposta per osservare la parte di montagna che prima non vedevo, mi continuerebbero a rimanere ignote tantissime cose della montagna: i suoi sentirei, gli animali che la abitano, le sue rocce, le insenature, le caverne, ogni suo albero ciascuno diverso dall’altro. Neanche scalare la montagna arrivando fino alla vetta mi permetterebbe di affermare di conoscere la montagna. Quanti fili d’erba, fiori, pietre avrei mancato di osservare? Insomma è evidente che descrivere compiutamente una montagna è impossibile, e ciò nonostante sia un qualcosa che sicuramente possiamo classificare come finito. Cosa dire qualcosa della pretesa di descrivere qualcosa di infinito? Capiamo che sarebbe una follia. Ad ogni modo, consapevoli della parzialità della nostra descrizione, possiamo sicuramente dire qualcosa di quelle forme della montagna che siamo riusciti ad osservare. Dobbiamo dunque concludere che la montagna deve essere considerata come un qualcosa di polimorfo, ovvero qualcosa di unico che, tuttavia, presenta e può essere descritto solo definendo le sue forme parziali.
A fortiori, anche Dio non può che essere polimorfo, dove il suffisso poli-, in questo caso, non indica neanche una quantità finita. Nella Bhagavad-Gita questo fatto è detto chiaramente, si tratta di un punto chiave per la comprensione di tutta la tradizione indovedica che, superficialmente, può sembrare politeista mentre invece prevede un unico Dio “che Si manifesta in una molteplicità di forme” (BG, IX-15).
In occidente, abbiamo per lo più assunto nel nostro inconscio collettivo solo un certo numero di forme del Divino per cui, nel dichiararci atei, stiamo in realtà affermando semplicemente di non riconoscere questa o quella determinata forma del Divino che noi riteniamo, a torto, essere la totalità di Dio. A questo punto dovremmo aver raggiunto un primo tassello della nostra dimostrazione che può essere riassunto con la seguente proposizione: non adorare una o più forme di Dio (Cristo, Allah, Shiva, la Madre Terra, il Fulmine, ecc, ecc..) è una condizione necessaria ma non sufficiente per potersi definire ateo. Al contrario, per definirsi veramente ateo, la condizione necessaria e sufficiente sarebbe quella di non adorare in nessuna forma la divinità.
Si potrebbe, forse, affermare che, essendo infinite le forme di Dio, sarebbe di per sé impossibile poterle rifiutare tutte. In punta di logica questo ragionamento sarebbe forse vero, tuttavia, non la ritengo una dimostrazione pienamente soddisfacente. Sono convinto che, procedendo con l’analisi, si possa arrivare a dare una dimostrazione positiva e più convincente, affermando che tutti adorano Dio in una qualche sua forma; cosa che, naturalmente equivale a dimostrare che nessuno può, ragionevolmente, dirsi ateo.
Da quanto ho potuto osservare, e invito il lettore a riportare ciò nella propria quotidianità per corroborare o smentire questo punto di vista, ogni uomo, ma io direi anche ogni essere vivente, si pone sempre al servizio, adora e sacrifica a “qualcuno”.
Cos’è Dio se non Colui che viene adorato, servito e a cui si sacrifica? Krishna nella Bhagavad-Gita lo dice in maniera esplicita “Io [Krishna sta parlando in prima persona] sono il beneficiario supremo di tutti i sacrifici” (BG V.29), non dice di essere il beneficiario supremo dei sacrifici che sono rivolti a Lui, ma di tutti i sacrifici nessuno escluso. Più avanti Krishna si preoccupa di ribadire questo stesso concetto affermando di nuovo che “coloro che con fede adorano i deva in realtà non adorano altri che Me” (BG IX.23) perché “Io [Krishna] sono l’unico beneficiario [dei sacrifici]” (BG IX.24).
Ora che abbiamo visto come Dio sia colui che riceve ogni sacrificio, ci rimane ancora da dimostrare l’asserzione, solo accennata pocanzi, per cui ognuno si pone sempre al servizio, adora e sacrifica a “qualcuno”. Cominciamo con il dare un nome a questo “qualcuno” che abbiamo posto fra virgolette e diciamo pure che si tratta di quello che, nella tradizione indovedica, viene chiamato deva o che in altre tradizioni politeistiche, o apparentemente tali, viene personificato con uno degli dei di quel pantheon, sia esso greco, norreno, egizio, ecc...
Un giudice dedica la propria vita, fino anche all’estremo sacrificio come purtroppo è spesso accaduto, all’esercizio delle proprie funzioni, cos’è se non un devoto della Giustizia?
Ma anche chi dedica la propria vita a guadagnare al fine di poter acquistare gli abiti firmati che tanto adora, o chi sacrifica finanche la salute per ottenere gli adorati muscoli ipertrofici e poter così competere nelle gare culturistiche, cosa sono questi se non dei devoti alla dea Bellezza? Certo è un tipo di devozione chiaramente tamasica, andrebbe canalizzata e resa sattivica, ma pur sempre di devozione si tratta. Se, per ipotesi, queste persone dichiarassero di essere atee bisognerebbe credergli o, piuttosto, bisognerebbe forse spiegare loro che, in realtà, stanno adorando una certa forma di Dio che non sanno essere tale?
Ma anche i sensi sono dei deva nella tradizione indovedica, e quanti di noi, se ci riflettiamo, adoriamo e sacrifichiamo ai nostri Sensi? Pensiamo al goloso, all’alcolizzato o al fumatore, potrebbero queste persone dirsi veramente atee? Certamente no.
Fin qui qualcuno potrebbe, tuttavia, non riconoscersi negli esempi fatti e quindi la dimostrazione potrebbe non risultare pienamente convincente. Mi preme quindi, in ultimo, portare un esempio a cui nessuno potrà dirsi estraneo.
Chi, fra di noi, può dire di non adorare il proprio ego e di non averlo eletto a deva alla cui gratificazione viene diretta ogni azione?
In verità, io credo, non possiamo sceglie se adorare ma solo cosa adorare, non possiamo sceglie se credere ma solo in cosa credere, non possiamo scegliere se sacrificare ma solo a chi sacrificare. E se la nostra scelta sta solo nella datità, ovvero nello scegliere “a chi”, perché non cercare la più alta datità a cui riusciamo a tendere?