fbpx
Skip to main content

OLTRE LA VITA - L’ultimo tabù dell’uomo moderno (parte I)

Lascia che la vita sia bella come i fiori d’estate e la morte come le foglie d’autunno.
(Rabindranath Tagore)

Qual è la cosa più stupefacente del mondo?
Nel libro della foresta noto come vana parvan, terzo libro del Mahabharata, il grande poema epico dell’India Antica, si narra che il re saggio Yudhishthira, mentre vagava in esilio nella foresta insieme ai suoi fratelli, si imbattè in un lago magico da cui proveniva una voce che lo sottopose ad una serie di domande sul senso della vita.
E’ in realtà lo stesso Yama (o Dharma), deva della morte e padre di Yudhishthira, che interroga il figlio per saggiarne le doti di Kshatriya (il comparto sociale cui appartenevano i governanti, re e guerrieri secondo il sistema indovedico chiamato varma-ashrama-dharma). La sua lunga lista di domande, alle quali Yudhishthira risponde in modo brillante e puntuale culmina con la questione più importante di tutte:
“Qual è la cosa più sorprendente a questo mondo?”
“La cosa più sorprendente di tutte” – risponde Yudhishthira – “è che, malgrado ogni giorno la morte colpisca innumerevoli esseri viventi, quelli che rimangono continuano a vivere come se fossero immortali. Questa è la cosa più stupefacente.”
E con questa risposta il dio Dharma si ritiene soddisfatto della saggezza e della rettitudine di suo figlio, il re di Hastinapura.
A distanza di migliaia di anni, la morte continua ad essere un tabù quasi insormontabile per l’uomo moderno.

Definizione di morte e sua funzione evolutiva
Sui dizionari online più consultati, la parola viene accuratamente sostituita con altre meno ansiogene (perdita, scomparsa, dipartita ecc.) o addirittura rimossa. Il “ciclo dela vita”, nei programmi didattici più accreditati e anche presso le accademie e gli atenei universitari che insegnano scienze umanistiche viene tradotto come “un intervallo che può coinvolgere tutte le diverse generazioni di una specie che si susseguono tra loro durante la riproduzione, ovvero un periodo compreso tra una generazione di organismi e lo stesso identico organismo, in quanto caratteristiche biologiche, della generazione immediatamente successiva”.
La morte, cioè il momento cruciale di ogni esistenza, è definito come la permanente cessazione di tutte le funzioni vitali dell'essere vivente, e con ciò si esaurisce ogni dissertazione.

E invece la morte fa parte della vita come la malattia fa parte della salute.

La ciclicità di Vita e Morte appartiene al nostro quotidiano; ognuno di noi muore e rinasce ogni giorno, insieme al giorno che a sua volta muore e rinasce.
Anche se per morte intendiamo il momento finale della vita, con essa in realtà abbiamo a che fare ogni giorno. Nascita e morte – come bene e male – sono due poli opposti che vivono grazie alla presenza l’uno dell’altro e all’alternanza reciproca.
Lo vediamo in natura, dal micro al macrocosmo, dalla vita degli insetti a quella degli astri: ogni cosa vivente si estende in un ciclo di inizio, apogeo, declino e morte.
La vita di ogni uomo, come quella dell’Universo, è fatta al suo interno di tantissimi cicli nascita-morte: ogni mattina nasciamo rinnovati, ogni sera “moriamo” abbandonandoci al sonno; ogni anno la primavera ci fa rinascere e l’inverno ci fa ripiegare in noi stessi, in una morte simbolica che prepara a una nuova nascita.
Nelle vicende della vita, così come nasciamo a molti eventi e intenti, così dobbiamo essere pronti a “morire a noi stessi”, a polverizzare ciò che siamo per rinnovarci ed essere al passo con la realtà che cambia, fuori e dentro di noi.
Spesso non accettiamo questa continua “perdita” di noi stessi, eppure essa è necessaria per tenerci in vita. Non solo psicologicamente: anche il corpo si libera ogni giorno di decine di miliardi di cellule morte per rimpiazzarle con altre nuove. È solo così che possiamo vivere, per legge di Natura. Se vogliamo vivere bene dobbiamo imparare dal nostro corpo, che accetta questa morte parziale per la continuità della sua vita; o dagli animali, che assecondano i cicli vitali (il letargo, per esempio); o dagli alberi, che ogni anno “accettano” di perdere tutte le foglie.

Il mito della sibilla cumana
Un antico mito greco narra la storia di una giovane fanciulla che formulava oracoli in una caverna nei pressi del lago d’Averno, nella città di Cuma.
Apollo, innamorato di lei, le aveva offerto qualsiasi cosa purché diventasse la sua sacerdotessa. La giovane gli aveva chiesto l’immortalità ma si era dimenticata di chiedere la giovinezza, e quindi invecchiò sempre più finché il corpo divenne piccolo e consumato come quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di Apollo, fino a quando il corpo non scomparve e rimase solo la voce.
La leggenda della Sibilla Cumana rappresenta bene la condizione dell’esistenza umana, soggetta alle trasformazioni del Tempo, ma che, tuttavia, proprio attraverso il tempo, ci mostra il vero volto della vita, i valori essenziali, l’intima saggezza che riposa in ciò che non si vede e nelle visioni che soltanto l’esperienza e le realizzazioni interiori ci possono dischiudere.

Studi e ricerche sul fenomeno morte
Scrive Marco Ferrini, fondatore del Centro Studi Bhaktivedanta: “La coscienza della morte è un elemento fortemente condizionante della nostra vita.
A ridestare questa consapevolezza può essere la morte di una persona cara, una malattia grave che ci coglie impreparati oppure una nostra personale riflessione sul destino ultimo di ogni essere umano”. Per tentare di comprendere il grande mistero che attende tutti gli esseri viventi, alcuni autori si sono dedicati a raccogliere le narrazioni di coloro che hanno vissuto esperienze in punto di morte (NDE, near death experiences). Tale ricerca, iniziata nel secolo scorso con E. Bozzano (1862-1943), che pubblicò già nel 1906 una casistica riguardante le apparizioni dei defunti al letto di morte dei loro cari, continuò con Sir W. Barrett, fisico inglese fondatore della “Società per la ricerca psichica”, e proseguì con Elizabeth Kubler-Ross (1926-2004), considerata la fondatrice della moderna tanatologia. Negli anni settanta sono state pubblicate diverse raccolte di testimonianze, come “Di ritorno dall’aldilà”, di J.B. Delacour (1976), “La morte non è quello che pensiamo”, di J. C. Hampe (1976) e “La vita oltre la vita”, di R. Moody (1979). I protagonisti di questi libri, rispettivamente francesi, tedeschi e americani narrano molti elementi comuni; l’esperienza di pre-morte da loro vissuta passa attraverso le stesse fasi, ed essi sperimentano le stesse sensazioni indipendentemente da età, sesso, cultura e religione.
Un’indagine molto vasta e rigorosa è quella pubblicata nel 1979 dagli psicologi K. Osis e E. Haraldsson con il titolo “Quello che videro…nell’ora della morte”. L’indagine è stata definita “in due culture”, perché realizzata in parte negli Stati Uniti e in parte in India, allo scopo di verificare se le visioni in punto di morte dei soggetti esaminati fossero indicative della sopravvivenza dopo la morte e se esistessero variabili culturali e confessionali che incidevano nel racconto delle esperienze. Le visioni in punto di morte, indipendentemente dall’ambiente etnico e sociale di origine, erano perlopiù costituite da figure care precedentemente defunte o da figure religiose. Per una percentuale altissima, e in netto contrasto con lo stato d’animo comprensibilmente depresso del momento, le visioni avevano suscitato un senso di serenità, pace e armonia. Anche certi pazienti atei, che non credevano nell’aldilà e non si aspettavano alcuna forma di sopravvivenza alla morte, avevano avuto visioni di parenti che venivano ad accoglierli e che li “invitavano” a morire. Età, sesso e grado di istruzione erano ininfluenti. Le credenze religiose non fecero registrare differenze di rilievo: musulmani, cristiani e induisti avevano visioni simili, anche se la religione di appartenenza determinava i nomi delle figure religiose.
Un’altra inchiesta molto interessante e rigorosa è stata condotta da K. Ring, psicologo dell’Università del Connecticut (USA), pubblicata nel 1980 col titolo “Life at Death”. Si tratta della prima ricerca compiuta in ambito accademico. In essa si analizzano circa cento casi di persone che avevano subito un arresto cardiaco. I loro resoconti seguono una specie di modello che comprende varie fasi: sensazione soggettiva di essere morti accompagnata da un gran senso di pace, separazione dal corpo, ingresso in una regione buia ma serena, incontro con “presenze” o “voci”, esame della propria vita, visione di colori, percezione di suoni e musica, ingresso in un mondo di luce e di amore, rientro nel corpo e conseguente fine dell’esperienza. L’ampiezza e la profondità dell’esperienza sembravano dipendere dalle cause che avevano provocato la quasi-morte: per esempio, chi aveva tentato il suicidio non superava la terza fase, mentre chi era giunto ai confini della vita dopo una lunga malattia riusciva più facilmente a vedere la luce, che in genere rappresentava la meta del gran viaggio e, insieme, il punto di non ritorno alla vita terrena.
Elizabeth Kubler-Ross, Raymond Moody e Brian Weiss sono tra gli studiosi che negli ultimi decenni più hanno contribuito ad indagare e raccogliere testimonianze sul fenomeno della morte.